Fonte: L’Indro;
Gardini e Cagliari, quel drammatico luglio 1993 e questo ‘drammatico’ luglio 2018
Quello di Raul Gardini, attorno alle 8 del mattino di venerdì 23 luglio 1993 fu senza dubbio, tecnicamente, un suicidio. Nel senso che fu il capo (anzi: il Capo) del ‘Gruppo Ferruzzi’, ravennate colosso agroalimentare di dimensioni mondiali a partire dal quale aveva scalato la Montedison e fondendola con l’Eni creato l’’Enimont’, a prendere la decisione, aprendere la pistola, a prendere il coraggio a due mani e usarne una per spararsi un colpo alla tempia. Anzi, curiosamente, due. (Vedi Parte prima di questa ricostruzione-indagine: ‘Perché si uccise Raul Gardini, e i rapporti ‘Gruppo Ferruzzi’-‘Cosa nostra’’, ‘L’Indro’ lunedì 23 luglio 2018).
Ma su quella decisione, come su tante altre di quel periodo e successive, e di questo diversamente drammatico luglio 2018, pesavano tanti fatti. Anche il rapporto con la criminalità organizzata di origine siciliana, la Mafia o almeno componenti mafiose e forse, ancor più, con ‘teste’ statunitensi. ‘Cosa nostra’. Scrivevamo dunque. «Se mai vi fu suicidio annunciato, ‘stoicamente’ annunciato, quello di Raul Gardini lo fu. ‘Annunciato’ alle persone che gli erano più vicino, amici, collaboratori, familiari di sangue e familiari acquisiti. Pochi ma buoni. E leali. Che a chi li conosceva mostrarono sì dolore, ma quasi nessuna sorpresa. ‘Sapevano’, da settimane, da giorni, probabilmente in maniera esplicita dalla sera precedente quel colpo di pistola alla testa che pose fine alla vita del ‘Contadino’, come lo chiamavano e amava farsi chiamare. Era il 23 luglio 1993. Come oggi, 25 anni fa. Raul si era sparato qualche minuto prima delle 8 del mattino(o qualche minuto dopo) un colpo alla tempia con una vecchia Walter Ppk 65».
Gardini e Gabriele Cagliari furono i due ’morti autoammazzati’ di ‘Tangentopoli’. Non i soli, certo, ma accomunati dall’essere uomini di vertice dell’industria italiana, privata e pubblica. Si suicidarono (o, forse, meglio scrivere ‘suicidarono’) in rapida sequenza nel luglio 1993. Entrambi schiacciati dal peso di accuse che stavano facendo crollare l’intero sistema politico ed economico. Cagliari, Presidente dell’Eni dal 1989 a quel 1993, lo fece martedì 20 luglio. Solamente tre giorni dopo toccava all’apparentemente ben più ‘solido’ Gardini. Di suo Cagliari scelse una fine meno ‘eroica’, venne infatti ritrovato nelle docce del carcere milanese di San Vittore soffocato da un sacchetto di plastica in testa. Vi aveva trascorso quattro mesi di carcerazione preventiva durante i quali era stato ripetutamente interrogato sugli sviluppi dei casi Enimont, fondi neri Eni ed Eni-Sai. Il suo suicidio era stato ‘preannunciato’. Come, abbiamo raccontato, quello di Gardini che però non lasciò nulla di scritto. O almeno nulla di scritto, e significativo, venne reso pubblico da familiari amici collaboratori. Cagliari aveva invece indirizzato ai familiari una lettera dodici giorni prima dell’ultimo interrogatorio, ‘salutando’ famiglia ed amici. Il 10 luglio scrisse una nuova missiva diretta alla moglie: «Siamo agli epigoni di un sistema sconfitto; un sistema che io non ho certamente contribuito a instaurare ma che, purtroppo, ho accettato…». La fine è nota.
Quanto a Gardini si uccise «in Piazza Belgioioso, cuore di Milano, due passi da Duomo e Scala, foresteria del ‘Gruppo Ferruzzi’ di Ravenna, colosso mondiale dell’agroalimentare. Che Gardini guidava come un sovrano (semi)assoluto. O un comandante velico, che sono più o meno la stessa cosa. (…) era nato il 7 luglio 1933, proprio a Ravenna. Aveva quindi 60 anni appena compiuti al momento di quella scelta epica eroica vigliacca tragica al contempo. ‘A modo mio’ aveva voluto intitolare la propria autobiografia uscita nel 1991, solo due anni prima, da Mondadori. (…) Peccato che in questo ‘modo suo’ di Raul Gardini sembri scoprirsi, o più che altro riscoprirsi, che ci fosse anche la criminalità organizzata di origine siciliana. E forse non solo quella». ‘Cronaca di una morte annunciata’ potremmo proprio dire, scomodando Gabriel García Márquez. Riaggiornandolo a ‘Cronaca di due morti ampiamente e quasi pubblicamente annunciate’. Dietro le quali, o almeno dietro quella di Gardini ma potrebbe aver avuto un ruolo e lasciato una traccia anche su quella di Cagliari, si proietta la lunga mano della Mafia. Quanto lunga, e quanto nella fattispecie pesante, è materia da indagare e sino ad oggi mai sufficientemente indagata. In una sentenza i giudici scrissero che «tra i Ferruzzi e Cosa nostra vi era un patto». Da quella affermazione si riparte.
Per quella mattina del 23 luglio il primo impegno di Gardini, annotato su di una sua agenda, era la partecipazione proprio ai funerali di Cagliari. Subito dopo ci sarebbe stato l’interrogatorio da parte di Antonio Di Pietro, alloraPubblico Ministero simbolo di Mani Pulite. In una Caserma dei Carabinieri, da cui Gardini si aspettava di uscire con lemanette ai polsi (e non solo metaforicamente). Marco De Luca, suo difensore, fu l’ultimo ad incontrarlo. Non ha dubbi sul suicidio, però non se lo spiega, o almeno mostra di non spiegarselo. Riferiscono Paolo Biondani e Alessandro Cicognani su ‘L’Espresso’ in ‘Raul Gardini, spuntano le carte segrete’ che la sera antecedente, il 22 «con Giovanni Maria Flick, siamo rimasti con Gardini fino alle 23. Lui sapeva che stava per essere arrestato, era uscita la notizia delle confessioni del presidente del gruppo, Giuseppe Garofano. Prima di vederci Gardini era preoccupato, temeva che si scaricasse ogni colpa su di lui. Gli abbiamo spiegato che da una persona come Garofano non doveva temere falsità: aveva solo confermato le accuse che Gardini si aspettava. E cioè il sistema dei fondi neri gestito da Berlini. Anche sul carcere, l’abbiamo rassicurato. Gli abbiamo detto che avevamo parlato con Di Pietro, quando non poteva più smentire di aver chiesto l’arresto. E che il pm si era impegnato a interrogarlo in una caserma, con lealtà, evitandogli il carcere». Bastava quindi questo per giustificare, e in un uomo apparentemente d’acciaio come Raul Gardini, il suicidio? «Me lo sono chiesto per anni» continua De Luca. «Quella sera era molto logorato. Però sapeva che non sarebbe neppure entrato in carcere. Oggi penso che abbia voluto proteggere la sua storia di imprenditore. E la sua famiglia. Non poteva accettare di tornare a Ravenna con il marchio di corruttore. Si è tolto di mezzo perché la sua famiglia fosse lasciata in pace».